Lamentarsi e reagire
Lamentarsi e reagire sono entrambe due polarità necessarie per vivere. Lamentarsi aiuta a esprimere molti sentimenti ed emozioni come ad esempio la tristezza, il dolore, l’insofferenza, la rabbia, la stanchezza, che altrimenti rimarrebbero inespresse. È anche un modo per comunicare all’altro un nostro stato di carenza e di bisogno. I bambini si lamentano, piangono, si arrabbiano, fanno le bizze; non sempre queste modalità però sono accolte e riconosciute dalla madre: a volte vengono scoraggiate e inibite, e così il bambino impara a trattenere la protesta, l’accusa, lo sfogo, percependole come modalità inadeguate per ottenere la vicinanza delle figure di attaccamento. Di conseguenza spesso tali emozioni vengono percepite come dannose, soprattutto se rivolte contro gli altri; possono invece essere rivolte contro se stessi e trasformate in colpa: divento colpevole di sentirmi fragile, arrabbiato, accusatore, mentre è scontato che debba risolvere, trovare soluzioni, reagire. In altri casi invece lamentarsi è il modo più efficace per attirare le attenzioni della madre: in questo modo il bambino impara che è più facile accusare e dipendere dall’altro piuttosto che fare perno su se stesso per reagire e risolvere i problemi. Si sviluppa in questo modo un meccanismo proiettivo che identifica principalmente nell’altro il responsabile dei propri problemi, mentre è inibito il senso della propria responsabilità; mi arrabbio con me stesso senza trovare soluzioni: sfogarsi può diventare allora un modo per non risolvere i problemi.
Ognuno di noi probabilmente può probabilmente identificare chi, nella propria famiglia di origine, ha assunto il ruolo del principale protagonista del lamento, e chi, viceversa, ha assunto quello del “risolutore di problemi”. A questo scopo potrebbe essere illuminante lavorare con un genogramma familiare “a tema”, che ci aiuti a individuare i mandati e i miti familiari relativi a queste due importanti polarità dell’esistenza. Lamentarsi e reagire sono anche due polarità necessarie per elaborare un lutto; spesso reagiamo per non sentire o, viceversa, ci rifugiamo nel sentire per non reagire. Infatti le due polarità in questione ci hanno accompagnato nella nostra infanzia anche in un altro tipo di esperienza esistenziale fondamentale: la perdita, il distacco, come ci insegna John Bowlby1. Anche in relazione alla perdita impariamo precocemente a lamentarci per ottenere conforto e attenzione dall’altro, costruendo così le basi di una dipendenza affettiva, o piuttosto a reagire per timore della dipendenza e per sfiducia nella relazione, o vergogna nel dimostrare le nostre parti deboli e fragili.
Tutto ciò che impariamo attraverso la relazione con le figure di attaccamento, successivamente lo ripetiamo nella relazione con noi stessi; impariamo a trattare noi stessi con gli stessi pattern con cui siamo stati trattati e diventiamo perciò accusatori passivi insoddisfatti o razionali, freddi e attivi soluzionatori. Nella cultura contemporanea il lamento tende ad essere visto come negativo: l’enfasi è invece sul pensiero positivo, che tende a risolvere problemi. Si parla di “emozioni distruttive” (Goleman e Dalai Lama2) a proposito ad esempio della rabbia, sottolineando come la rabbia, lungi dall’aiutare a risolvere problemi, spesso li renda insolubili, suscitando negli altri ostilità. Se ciò è indubbiamente vero là dove si tratta di risolvere un problema, d’altro canto non risulta sempre vero quando non si tratta di risolvere un problema ma semplicemente di manifestare la propria autenticità; se guardiamo alle relazioni interpersonali sempre nei termini di
1 John Bowlby, Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996. 2 Dalai Lama, Daniel Goleman, Emozioni distruttive, Oscar Mondadori, Milano, 2009.
una ottimizzazione dei risultati, perderemo facilmente di vista che le relazioni sono fatte anche di sentimenti e di espressione di emozioni che non sempre hanno la finalità di risolvere problemi, quanto a volte solo di esprimere vissuti. Insomma, la rabbia potrà non servire a risolvere un problema, ma forse a sfogarsi; non pare però che i messaggi che riceviamo dalla cultura e dall’educazione vadano nel senso di incoraggiare l’espressione delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti. È per questo che quando poi li esprimiamo assumono facilmente modalità disfunzionali e distruttive.
È facilmente comprensibile, a questo proposito, che sarebbe utile, per un migliore equilibrio con se stessi e nelle relazioni con gli altri, sviluppare le polarità “sommerse” di emozioni o sentimenti che, solitamente non ci permettiamo di esplorare e quindi nemmeno di esprimere nelle relazioni con gli altri. Impersonificare, per dirla con una metafora teatrale, il personaggio che sta dietro le quinte, la voce che viene dall’ombra, il copione nascosto dietro il curriculum ufficiale da presentare nel mercato della compra-vendita narcisistica, dargli vita, corpo, movimento, ci aiuterebbe a comprendere meglio che non siamo così coerenti come vorremmo credere e che, un po’ più di conoscenza e quindi di tolleranza con le nostre parti più incoerenti ci servirebbe per vivere meglio le nostre emozioni e per potersi infine lamentarsi o reagire in pace, senza troppi giudizi o sensi di colpa.
Claudio Billi
L’ultima composizione pianistica di Robert Schumann, prima del tentato suicidio, ben rappresenta l’emblematico dilemma da cui siamo partiti: “lamentarsi e reagire”